mercoledì 3 ottobre ’18

    XXVII Settimana del tempo ordinario

     

     

    Proverbio del giorno

    Un mendicante non può dire che la salsa è troppo piccante. (Africa)

     

    Preghiera del giorno (preghiera di Isaia di Scete)

    Signore Gesù Cristo, non farmi peccare contro di te, perché mi sono smarrito. Fa’ che non segua la mia volontà e vada in rovina coi miei peccati. Abbi compassione di me, non disprezzarmi perché sono debole, non abbandonarmi perché in te mi rifugio, guarisci l’anima mia perché ho peccato contro di te. Signore, salvami per la tua misericordia perché tu, Signore, sei potente in tutto e a te spetta la gloria, a Dio Padre e allo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

     

    Francisco de Borja

    nasce a Gandia (Valencia, Spagna) nel 1510 nella famosa famiglia Borgia. Crebbe a Saragozza e a dodici anni fu inviato come paggio a Tordesillas e poi da Carlo V: entrò presto nelle grazie dell’imperatrice Isabella, che lo nomina marchese di Lombay e lo fa sposare con Eleonora de Castro, da cui ebbe 8 figli. Nel 1539 è nominato viceré di Catalogna, ma nel 1546 la moglie muore ed egli emette i voti solenni ed entrò nella Compagnia di Gesù, ma ottiene una particolare dispensa per assolvere i suoi doveri di genitore. Nel 1550 a Roma viene ordinato sacerdote e diventa uno dei principali collaboratori di S. Ignazio. Contribuisce all’istituzione del “Collegio romano”, l’attuale “Università Gregoriana” e nel 1554 è nominato “Commissario generale” in Spagna. Nel 1565 viene eletto “Preposito Generale” della Compagnia di Gesù e dà grande impulso all’attività missionaria dell’Ordine in India, Brasile e Giappone. Muore a Roma il 30 settembre 1572.

     

    La Parola di Dio del giorno (Luca 9,57-62)

    Mentre andavano per la strada, un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada». Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre». Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

     

    BREVE COMMENTO AL VANGELO

    Umiliarsi, diventare piccoli non è ideale ascetico di timido nascondimento o rassegnata sottomissione, ma concreto servizio di Dio e del prossimo. Se Gesù si identifica col piccolo, chi vorrà ancora essere grande? Piccolo è colui che non conta, colui che serve. Il primo posto nella comunità cristiana è riservato a lui. L’autorità deve mettere i piccoli al primo posto nella sua considerazione e nei suoi programmi. E tutti, se vogliono stare nella comunità cristiana, che è il regno di Dio, devono diventare piccoli, mettendosi in atteggiamento di servizio.

     

    Riflessione per il giorno (Mons. Ravasi. Mattutino)

    C’è un’ape che se posa / su un bottone de rosa: / lo succhia e se ne va…/ Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa. Trilussa, il noto poeta romanesco morto nel 1950, aveva intitolato una sua raccolta di versi Acqua e vino. Ecco, da quelle pagine ho tratto solo 5 versi, piccola cosa come lo è l’immagine del bocciolo di rosa sul quale l’ape si posa e come lo è una felicità genuina, che ti viene incontro nella realtà di ogni giorno. Eppure, è proprio di queste piccole gioie che noi siamo – spesso inconsciamente – in ricerca. A questo punto diamo voce a una bella e famosa parabola buddhista. «Un uomo s’imbatté in una tigre. Si mise a correre sempre tallonato dalla belva. Giunto davanti a un precipizio, si lasciò penzolare aggrappandosi a una vite selvatica posta sull’orlo. La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo vide che due topi avevano cominciato a rosicchiare la vite. In quel momento, però, egli scorse davanti a sé una stupenda fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola: com’era dolce!». Anche nell’incubo più nero, si può accendere una scintilla di luce. È importante afferrarla: la paura e la sofferenza muteranno, senza per questo scomparire.

     

    Intenzione del giorno

    Preghiamo per i giovani perché non si lascino condizionare troppo dalle mode passeggere…

    Don’t Forget

    Personaggio della settimana

    P. ALEJANDRO SOLALINDE

    Lunedì 01-10-2018 alle ore 20,30 al Patronato S. Vincenzo in via Gavazzeni 3 a Bergamo, una chiesa gremita ha accolto la testimonianza di P. Alejandro Solalinde (sacerdote messicano di cui tracciamo il profilo) nell’ambito delle iniziative di “Molte Fedi” a cura delle Acli di Bergamo con Daniele Rocchetti. E’ stata la 2.a delle tre serate previste all’interno del PSV per celebrare i 90° anni del Patronato S.V. P. Alejandro è stato ospite per tre giorni da noi ed ha condiviso la nostra mensa e prestato il suo appoggio e la sua amicizia.

     “I migranti. Quel giorno li vidi. Prima, c’ero passato solo accanto. Come tanti altri”. La vita di un sacerdote messicano cambia radicalmente, mentre passeggia per le vie di Espinal, Stato di Oaxaca. È il 2005: finalmente incontra la sua vera missione. Da “padrecito burgués” alla difesa dei migranti dal business del narcotraffico, un business disumano che ha trasformato in denaro ogni centimetro di pelle in transito e che nel libro “I narcos mi vogliono morto” (EMI) viene raccontato minuziosamente. E’ la storia di Alejandro Solalinde, scritta con la giornalista Lucia Capuzzi, in collaborazione con Amnesty International e presentata presso la Comunità S. Egidio a Roma. “Hermanos en el camino” è il nome del centro d’accoglienza costruito a ridosso dei binari su cui transita il treno-merci “La Bestia”, trasportando da anni migliaia di indocumentados, ovvero i migranti del Centro America in fuga da povertà e violenza. Vi salgono con l’imperativo di non addormentarsi, pena la vita, desiderosi di raggiungere gli USA. Padre Alejandro ha acquistato il terreno celando la sua identità, perché l’idea che a Ixtepec, piccolo paesino del sud del Messico, ci fosse un “albergue” per migranti, non piaceva alla cittadinanza. Ha cominciato portando ai migranti cibo e acqua lungo i binari, conquistando la loro fiducia e offrendo un luogo dove riposare. Migranti e narcotraffico. In una terra come il Messico, dove i tassi di impunità e corruzione sono alle stelle; dove 20 mila migranti ogni anno spariscono nel nulla, dove un rene o un fegato è venduto fino a 150.000 dollari, dove ufficialmente avvengono 54 sequestri al giorno, nel Messico conteso dai cartelli, Los Zetas da un lato e quello del Golfo dall’altro, Solalinde è un uomo scomodo. Tanto per i criminali conclamati, costretti a spostare il centro dei propri affari altrove, quanto per quelli travestiti da uomini delle istituzioni. Cosa lega i narcotrafficanti ai migranti? La risposta è nel business che le vite umane in condizioni di vulnerabilità generano: prostitute, schiavi, persino organi valgono 50 milioni di dollari l’anno per i narcos e per i politici corrotti. P. Alejandro definisce il suo paese “narcocleptocrazia”. E, pur vivendo con quattro uomini della scorta al seguito e una taglia sulla testa, continua a trovare il coraggio di denunciare. Candidato al Nobel per la Pace 2017, definisce paradossalmente Trump “un’opportunità”, “un acceleratore di un sistema in agonia”, e i migranti “pionieri del futuro” perché “con il coraggio di rischiare, anticipano una nuova società”. “I narcos mi vogliono morto” è un libro emozionante, tra le pagine pulsa la vita di chi ha seguito una vocazione e ci invita a non vivere “chiusi a doppia mandata nelle nostre isole blindate, paralizzati dal terrore”, perché “o ci salviamo tutti, o tutti verremo travolti”.

     

     

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