“…Seduto in poltrona presso la finestra, avvolto in una coperta da cui sbuca poco più che la testa, don Roberto trasmette un profondo senso di serenità che commuove. Riesce a parlare (è bravo a nascondere la fatica che fa…) ma non muove un muscolo e per qualsiasi cosa –qualsiasi- ha bisogno di qualcuno che lo aiuti e lo assista…”.
Così lo descriveva un bell’articolo de l’Eco (19-3-2017); così ci siamo abituati a conoscerlo tutti da più di 20 anni a questa parte. Ma don Roberto Pennati, classe 1946, è stato anche altro, molto altro. E’ stato il bimbo sensibile e intelligente che a sette anni rimane orfano del papà tornato malconcio dalla guerra, un lutto grave che però non gli impedisce di crescere serenamente in un ambiente familiare e sociale di povertà dignitosa e di grande ricchezza umana e cristiana. E’ stato il ragazzo inviato dalla famiglia al Patronato di S. Paolo d’Argon e che, su consiglio del direttore don Carlo Avogadro, completa le elementari a Stezzano nella casa di formazione di don Bepo dove poco a poco matura dentro di sé la decisione di diventare prete, senza per questo smettere di vivere intensamente l’adolescenza nell’amicizia, nella pratica dello sport, negli studi, con qualche fatica iniziale spazzata via da tanta buona volontà.
E’ stato il prete che ha legato la vita e il ministero al Patronato come vicerettore dei ragazzi a Bergamo, svolgendo il compito con scrupolo e passione, senza rinunciare però a fare nuove esperienze, a conoscere, a viaggiare: dall’Eritrea alla Bolivia, da Taizé a Lourdes e a tanti altri luoghi…
E ancora le sue mitiche galoppate in bicicletta, i viaggi con gli amici e soprattutto la montagna che diventa l’esperienza più importante, quella che ricorderà sempre con entusiasmo e che, senza che lui lo sappia, anticipa la scalata alle vette interiori, quelle più alte, rischiose e inaccessibili. Da innamorato della montagna custodisce gelosamente tre cose: la foto del Cervino, la vetta più difficile e la più amata, le stelle alpine e la Madonnina “che (è lui che parla) è rimasta per 15 anni su un torrione vicino al Lago Rotondo: l’avevo messa per sostituirne una rovinata. Mi commuove pensando al freddo, alle bufere e alla neve di cui è stata testimone. Sono un po’ come le bufere che la vita ci fa attraversare. E allora chiedo alla Vergine Maria di starmi vicino”.
E quando la malattia lo costringe all’immobilità, non rinuncia a scrutare le montagne e su internet scopre un laghetto delle Orobie di cui nessuno si era fino ad allora accorto! E’ stato un bravo discepolo di due grandi maestri: il primo è don Bepo dal quale ammette di aver imparato non delle nozioni, ma uno autentico stile di vita e di azione: quello stile che gli farà decidere di occuparsi –fra i primi in Italia- dei nuovi poveri cioè i giovani dipendenti dalle droghe. Per loro apre una casa che abita fino alla fine a testimonianza dell’impegno preso. E di don Bepo assimila anche la spiritualità: l’ultimo suo libro è dedicato proprio al profilo spirituale del fondatore del Patronato, che pochi hanno saputo cogliere, interpretare e vivere meglio di lui e che trasmette agli amici che non hanno mai smesso di riunirsi in casa sua a meditare, pregare e celebrare e ai tanti che da lui si confessano e gli chiedono consigli. Il secondo maestro è stata la malattia o il corpo malato come diceva lui: maestro difficile ed esigente, compagnia scomoda e dolorosa per più di 20 anni che però ha plasmato il don Roberto che tutti ammiriamo e la cui perdita piangiamo come quella di un amico, un fratello, un padre, un esempio.
Nessuno come lui, pur costretto all’immobilità e all’inazione, ha fatto tanto per chi gli ha voluto bene e per la Chiesa e il Patronato a cui ha sempre voluto bene. E ora lo affidiamo al Signore affinché continui a operare le sue meraviglie attraverso il suo servitore umile, saggio e fedele