C’è qualcosa che non quadra nelle “profezie” di tanti cristiani progressisti che nei tempi in cui “avere fede” significava ancora soprattutto “andare a Messa” sostenevano che il giorno in cui la Chiesa avesse celebrato di meno e testimoniato e praticato di più la carità verso i poveri, avrebbe recuperato credibilità a tal punto che tanti fedeli delusi avrebbero fatto ritorno alla comunità ecclesiale…Ebbene, negli ultimi decenni la Chiesa cattolica ha praticato la carità come non mai nella sua millenaria storia precedente: l’ha ha organizzata in modo capillare, ha aperto centri di ascolto, ha soccorso poveri e accolto migliaia di profughi e stranieri…ma i fuoriusciti non sono tornati, anzi, la politica delle porte spalancate ha convinto a uscire anche quelli che erano dentro (Nicolas Gomez Dàvila).
Come mai la nostra pratica della carità non suscita la fede? Perché le nostre mense, la nostra accoglienza e il nostro aiuto e sostegno economico e morale, non sembrano capaci di convincere ad aderire alla fede cristiana? Anzi, come mai neppure gli operatori e i volontari delle nostre organizzazioni caritative non sentono minimamente il bisogno di riscoprire la fede? Nei prossimi giorni in questo spazio della riflessione cercheremo di rispondere a questa provocazione…ma è chiaro che qualcosa non va nel nostro modo di praticare la carità!
La società di oggi sta riuscendo in un’impresa in cui nessuno nei 2000 anni di storia precedente è mai riuscito: convertire i cristiani cattolici non più a Dio, ma all’uomo e a quegli ideali e valori di libertà, democrazia, tolleranza, solidarietà, uguaglianza…che nessuno si sogna di mettere in discussione. In altre parole mentre gli uomini di chiesa –per timore o eccessivo rispetto- quasi non osano chiedere al mondo di convertirsi a Gesù e al Vangelo, il mondo osa (eccome!) mettere la Chiesa di fronte all’aut-aut: o vi convertite a noi e ai nostri valori o sparirete. Così la chiesa che ha predicato per venti secoli la conversione, si sente dire che ora tocca a lei di convertirsi. E’ vero che chiesa “semper reformanda”, ma qualcosa non torna! L’ambito in cui questa curiosa inversione di ruoli si realizza in modo più evidente, è la carità, l’impegno sociale, il volontariato, la cura del prossimo estesa anche agli animali e alla natura. Non è forse vero che i cristiani impegnati in ambito socio-caritativo sono così bravi, attenti, sensibili, solidali, amorevoli…che la richiesta di convertirsi a Dio sarebbe considerata una provocazione? Fare la carità in nome di Gesù, servire i poveri perché “vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre che è nei cieli”, vedere nel povero Gesù crocifisso…per tanti è linguaggio astruso, impossibile da capire. Chiedere a chi opera nel sociale o nel volontariato di andare anche a Messa e di pregare, sembra eccessivo, anzi inutile (viene in mente il giovane ricco. Marco 10,17-30). Che l’opinione pubblica abbia di queste pretese, pazienza, ma che all’andazzo si adeguino anche preti e uomini di Chiesa, è preoccupante.
“La carità offre il cibo all’affamato, ma lo fa anche la superbia. La carità fa questo perché sia lodato il Signore; la superbia perché sia lodata se stessa…Perciò non guardare ciò che fiorisce di fuori, ma quale sia la radice…Ha preso radici dentro di te la carità? Sta’ sicuro, nessun male ne può derivare”. Queste parole di S. Agostino aiutano a capire quale sia la maniera cristiana di fare il bene al prossimo; in altre parole definiscono cosa sia la carità. Oggi con superficialità si afferma che l’importante è fare del bene. Bisognerebbe invece chiederci: cosa significa “fare del bene”? In nome di chi lo si fa? Perché lo si fa? In che modo lo si fa? S. Agostino dice che la carità compie opere di bene, ma le compie anche la superbia!
Per questo ci offre indicazioni preziose: 1) Fare del bene al prossimo per amore di Gesù, perché nel povero si vede, serve e onora Lui, aiuterà ad andare oltre il criterio del merito, per cui si fa il bene solo a chi lo merita. 2) Fare del bene cioè donare al prossimo il bene che è dono di Dio: non dono al bisognoso solo ciò che è mio, ma gli offro anche ciò che Dio mi dona per lui e questo suscita la lode nei confronti di Dio: “perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. 3) Fare del bene in modo nascosto, non esibito: “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, per non cadere nella trappola della superbia che non cerca il bene del povero, ma la propria personale soddisfazione. 4) Fare del bene in modo gratuito, senza contraccambio: “se offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». 5) Fare il bene in modo tale che nella tua carità non ci sia solo il prossimo, ma anche Dio; nella tua fede non ci sia solo Dio, ma anche il prossimo. La carità unisce Dio e prossimo. La superbia li divide.
– don Davide –