nell’immagine un dipinto di Andersen Brendekilde
XXXIV Tempo Ordinario
La Riflessione del giorno (Fabrice Hadjadj)
Quando parliamo di felicità, l’idea che ne abbiamo si associa a due tipi di immagini che corrispondono a due modi opposti di rapportarsi al tempo. Il primo tipo, è quello della vita intensa. Il secondo, è quello della vita serena. Là, è lo strappo; qui, la maturazione. Là, l’istante; qui, la durata. Gli uni lo provano come un’effrazione. Gli altri lo percepiscono come una salita lenta ma irresistibile. Così è anche per la verità: è visione o cammino, velo che si solleva o dialogo che si protrae? Per il lavoro: è rapido successo o lavoro attento? Per la conversione: è Paolo o Pietro, brusca caduta da cavallo o seguire per anni sempre inciampando? La nostra epoca sta dalla parte della folgorazione e confonde facilmente il veloce e il vivace, forse a causa dell’accelerazione tecnologica, della banda larga e della connessione istantanea che fa spuntare tutto il virtuale sullo schermo che un attimo prima era grigio. E’ il treno ad alta velocità, ma che impedisce la contemplazione del paesaggio. Ecco perché facciamo tanta fatica ad afferrare il pensiero degli Antichi che cantavano la pace. Ad occhi moderni, la pace sembra un sonno. Quando S. Agostino la definisce come la «tranquillità dell’ordine», pensiamo quasi alla morte, non alla felicità. Il problema è che la ricerca dell’intenso rovina la sensibilità. Le sensazioni non sono mai abbastanza forti. Ecco perché il gusto dell’intensità rovescia facilmente la sua logica per giocare meglio sui contrasti. Si resta giorni chiusi nell’oscurità per aprire di colpo le finestre e vedere un giorno normale come una luce formidabile. Si digiuna tre giorni e niente da più piacere di un pezzo di pane duro. La fede sarebbe solo un colpo di bacchetta magica se tutto si decidesse con una caduta da cavallo. L’amore sarebbe solamente illusione e disillusione se si riducesse al piacere sessuale. I romantici volubili non mancheranno di considerare questo passaggio come un imborghesimento perché non riescono a entrare nella profonda poesia del quotidiano.
Don’t Forget!
Dopo un periodo iniziale di clemenza, l’imperatore Valeriano riprese le persecuzioni in un momento difficile per il suo impero, come testimoniano Cipriano ed Eusebio. Iniziò nel 257 con un primo editto che imponeva a vescovi, preti e diaconi di sacrificare agli Dei, pena l’esilio, e proibiva inoltre ai cristiani le assemblee di culto sequestrando chiese e cimiteri.
Un secondo editto del 258 sancì la pena di morte per chi rifiutava il sacrificio e aggiunse la confisca dei beni per i senatori e i cavalieri. Queste misure erano destinate soprattutto a rimpinguare le casse statali, ma anche a indebolire le comunità cristiane privandole delle guide spirituali e delle risorse finanziarie. La morte del vescovo di Roma Sisto è riportata in una lettera di Cipriano che fu decapitato poche settimane dopo. Nel 260 il figlio e successore Gallieno concesse a tutti di rientrare dall’esilio e restituì alle chiese i loro beni, inaugurando 40 anni di tranquillità per i cristiani. che poterono tornare ad accogliere sempre nuovi fedeli, diffondendosi sempre più anche nell’aristocrazia e nelle campagne. Il suo successore Aureliano impose il culto ufficiale del “Sol invictus” lasciando però ampio spazio di tolleranza ai cristiani: di fatto si riconosceva la loro presenza come un dato di fatto importante anche perché il patrimonio della Chiesa cominciava a essere tutt’altro che trascurabile.