Nel luglio 2021 la Cooperativa Il Mosaico ha avviato un laboratorio di assemblaggio all’interno della Casa Circondariale di Bergamo, mantenendo viva la collaborazione iniziata da don Fausto Resmini. Nei laboratori sono stati coinvolti 12 detenuti per più di 700 ore di lavoro producendo circa 1.600.000 pezzi. Tanti piccoli pezzi per costruire un futuro.
All’interno del laboratorio di assemblaggio, i ragazzi iniziano un primo confronto con la realtà del mondo del lavoro. Il lavoro non è finalizzato al guadagno, ma alla qualità di ciò che fai, alla dignità che recuperi e alla dignità dell’altro che riconosci. Il laboratorio valorizza il tempo della detenzione e favorisce il futuro reinserimento nella società.
Di seguito l’articolo di Maddalena Berbenni pubblicato sul Corriere della Sera da cui sono state estratte le frasi dei detenuti presenti all’interno del video.
Nel laboratorio tra le celle l’ex pugile, l’impiegato, il muratore: «Una salvezza, ma lo Stato dia chance per il dopo»
L’ansia del presente, in carcere, soffoca quasi come la paura del futuro fuori dal carcere. Bilal «Billy» Majoubi va dritto alla parete, nell’angolo nascosto dal muletto, oltre la lavagna, il crocifisso e le fotografie di don Fausto. Timbra lui per tutti. Ha 46 anni, origini tunisine e inflessione milanese. È nato a San Siro. È un omone con cicatrici e tatuaggi che risalgono ai tempi di quando faceva il pugile professionista. Sul dorso della mano destra ha una bomba, sullo stesso avambraccio il motto: «La tua invidia è la mia forza».
Fa paura, se non fosse per lo sguardo buono. È dentro da un paio di decenni e ancora gli manca parecchio: «Sette anni, se mi va bene». Come si immagina una volta libero: «Mi piacerebbe fare il volontario con i ragazzi, insegnare a non ripetere le cazzate che abbiamo fatto noi». Fuori, ma anche dentro. «Fare galera», come lo chiama lui, non è un esercizio che si impara in un attimo. «Io ho causato tanti problemi alle guardie, ho preso 5 anni di condanne interne e me ne pento. Insegnerei che se tu chiedi un diritto, devi sapere che hai anche doveri, che devi accettare i sì come i no».
La presentazione di Majoubi finisce quando gli altri sette compagni di laboratorio si sono sistemati alle postazioni, tra elastici per reti antigrandine e future valvole. Con Oliveto Salvatore, colonna della fondazione Don Resmini e della cooperativa Il Mosaico, sono bastati tre mesi insieme (da lunedì a venerdì, tre ore al giorno) per allacciare un rapporto che è fatto di rispetto, fiducia, ma anche scherzo: «Ci ha fatto una promessa, Oli, di rinnovarci tutti», lo martellano perché il contratto scade a dicembre e nessuno vuole lasciare il posto. Non è tanto per i 350 euro al mese, che comunque fanno comodo. Leonardo Ramos, 50 anni, colombiano, li manda alla famiglia. Ha una figlia di 13 anni e un maschio di 7. Quasi non lo conosce: «Aveva dieci giorni quando sono venuti ad arrestarmi per evasione dai domiciliari, poi sono sempre entrato e uscito per furto».
Non è tanto per le paghe. Il punto è il tempo impegnato in qualcosa di utile. «Il sabato e la domenica sono drammatici, aspetto il lunedì per tornare qui e dormo tanto per dimenticare di essere in carcere», racconta Gianpietro Frigerio, 56 anni, di Treviglio, una laura in Economia, due figlie, una ex moglie che gli fa visita regolarmente. Un ex impiego, anche. Si è messo nei guai con le truffe: «Perché quando ne hai tanti ne vorresti di più — spiega —. L’impatto è stato traumatico, anche se ora mi hanno spostato in una cella con due italiani e mi è cambiata la vita. Ieri sera abbiamo visto un film».
Il 3 dicembre sarà un anno che Mauro Forcella, meccanico di Bergamo, è entrato per spaccio. La sua attività era saltata, aveva bisogno di soldi. L’hanno fermato a Seriate e a febbraio ha festeggiato i 40 anni a San Vittore, dove era stato trasferito perché positivo al Covid: «Fortunatamente ho questo lavoro che mi porta via metà giornata. La prima cosa che voglio fare quando esco è andare a vedere la mia bambina», dice della figlia di 9 anni, di cui è riuscito a farsi mandare una foto. Mirco Tagliabue, 40 anni, entra ed esce dal 2000 per furti e rapine. È originario di Telgate, se la cava da solo fin da quando era un ragazzino perché i suoi genitori adottivi sono morti. Il tifo in Curva Nord ha lascito il posto alle partite ascoltate a Radio Alta, i cantieri in centro a Milano come muratore qualificato ai compiti più semplici: «Io sono un treno quando lavoro, sono fermo da tre anni ma ho ancora i calli — si guarda le mani —.
Il laboratorio è una cosa buona, ti stacchi dalla realtà che c’è là dentro, diventa un punto di riferimento diverso. In carcere la vita si ferma ma la testa viaggia e ti distrugge». Col fornelletto da campeggio e la carta stagnola cucina lasagne, panzerotti, le torte sono la sua specialità. «Potresti trovare lavoro in un ristorante», butta lì Salvatore. «La fai sempre facile tu», alza la voce Andrea Davò, 32 anni, di Cremona. Si è schiantato in autostrada contro i carabinieri a 170 chilometri all’ora, contromano. Ha problemi di droga, ma in comunità non c’è voluto andare. «Io fra poco uscirò e mi ritroverò solo per strada con le mie borse», si sfoga. «Gli esseri umani devono avere un’altra chance nella vita», è Abdeglil Miegeri, 30 anni, tunisino, anche lui detenuto per spaccio.
«Italiani o stranieri non fa differenza — aggiunge Tagliabue —. Io sulla carta d’identità come luogo di residenza ho scritto via Gleno 61 (l’indirizzo del carcere, ndr). Sono marchiato. Se esci e non hai una casa, puoi andare avanti e lavorare per un po’, ma poi non resisti». «Billy» Majoubi racconta delle sue difficoltà a incontrare il giudice di sorveglianza di Milano, delle docce che non funzionano, del fatto che vorrebbero poter lavorare anche quando Salvatore manca. «O insisti o dimentichi, sto male a vederti senza sorriso», incita il «fratello» che soffre per amore. «C’era un brigadiere bravissimo, quando sono arrivato a Bergamo — racconta —.
Mi disse: “Questo è il tuo fascicolo, io lo metto da parte e ricominciamo da zero. Da lì, devo dirlo, ho avuto tantissimi aiuti. Mi hanno migliorato le terapie di psicofarmaci, prima ne prendevo troppi. Sono seguito da bravi psicologi. Ho partecipato ad attività scolastiche e sportive. Ero una pecora nera, veramente. Adesso sono un’altra persona. Ma quando esci resti solo. E cosa fai? Altri Stati per un periodo danno una casa, ti seguono, poi se sbagli ti rimandano dentro. In Italia tutto questo non esiste. Un’opportunità non te la danno».