Mi saluta, ma con la mascherina che le copre quasi tutta la faccia non riesco a capire chi sia. Quando poi tira giù la protezione devo sforzarmi per contenere la sorpresa: dimagrita e sciupata com’è fatico a riconoscerla e intuisco quanto debba aver sofferto in questo periodo. “Vedo che sta bene” mi dice e poi, come un fiume in pena, attacca coi ricordi: malata, è stata ricoverata in ospedale, correndo non pochi rischi. Nel frattempo è morto suo padre: nessuno dei suoi l’ha più visto e lo hanno riconsegnato alla famiglia in un’urna cineraria e lei, in quarantena, non ha potuto neppure salutarlo al cimitero. Non trattiene le lacrime, ma continua: “E temo che mi lasceranno a casa dal lavoro…”. Mi limito ad ascoltare e lascio che si sfoghi; ma non posso fare a meno di notare come nel suo racconto non ci sia traccia di rabbia o di amarezza…dolore sì, tanto, ma un dolore calmo e pacato che chiede soltanto conforto e motivi di speranza. Glielo faccio notare: lei tira il fiato e dice: “Il virus ha già vinto due volte portandomi via papà e togliendomi il pane di bocca. Non gli permetterò di vincere la terza volta”. “E sarebbe?” chiedo. “Questo maledetto virus non riuscirà a incattivirmi perché farei il suo gioco. Voglio uscire dall’incubo migliore di quando sono entrata: così saprò di aver vinto io”.
– don Davide -Il