Un caro amico, Angelo, mi ha mandato recentemente un intervento del prof. Ivo Lizzola, docente dell’Università di Bergamo del Dipartimento di Scienze umane e sociali, sul tema “la comunità d’accoglienza come soglia” (maggio 2017).

Ho letto con passione questo articolo ritrovando fragilità, ambiguità e sfide che hanno attraversato il cammino della nostra comunità in questi 46 anni. Vorrei proporvi qualche stralcio per alimentare la passione e la riflessione educativa.

Don Gianluca

 

“Le ambigue comunità perimetrate”.

La Comunità d’accoglienza raccoglie in unità delle diversità. Le può ridurre per rinforzarsi; le può valorizzare infragilendosi. È un’ambivalenza antica, che però emerge con una forza tutta particolare, in un’epoca nella quale tantissime donne e tantissimi uomini, soprattutto giovani uomini e giovani donne, faticano a tracciare un percorso nella propria vita.

La Comunità d’accoglienza entra in gioco in modo ambivalente. A volte come il luogo che semplifica, offre una via breve. Offre, ad esempio, un’appartenenza totale che pare permettere di costruire immediatamente il senso della propria identità, e che così “risolve” anche il problema della decisione, della scelta. Promette di sciogliere il problema della differenza, dell’alterità. Fornisce identificazioni proponendosi, appunto, come una comunità perimetrata, dell’identico, dell’omogeneo, dell’omologato.

Come fare a costruire un contesto di appartenenza che sia anche esperienza della diversità? Come fare a costruire un senso forte di riconoscimento, di impegno reciproco e di corresponsabilità e, nello stesso tempo,  costruire spazi di autonomia, di attività che siano pratica della propria libertà, per chi “prende parte” alla vita comune?

Ci si trova su questa frontiera delicata. E occorre attraversarla.

Tutte le Comunità d’accoglienza rischiano di essere comunità difensive. Per non vivere troppo nell’evidenza delle tensioni che le abitano, anche nelle loro contraddizioni (io direi le necessarie contraddizioni che le abitano), si propongono come comunità difensive.

Si preferisce non rischiare di costruire, dentro un’alleanza, un dialogo continuo, un confronto aperto tra le parti ed i loro mondi vitali, per definire progressivamente, ridiscutendola e ridefinendola, una strategia di cammino, fatta di corresponsabilità e riconoscimento, di legittimi scarti e legittime distanze.

Non si interroga più la domanda, non si costruisce una rete di prossimità che è costruzione compartecipata, condivisa, ed anche un po’ rischiosa, di cammini, di progettazioni. Nei quali ogni soggetto è chiamato a dare  e a definire un ruolo per sé stesso in relazione ad altri. Si teme il conflitto, la differenza, il confronto.

(…)

I ragazzi devono recuperare il senso di presenze adulte sul loro cammino: quelle riconquistate, rigenerate, d’origine, e quelle che si sono fatte via via vicine, i genitori affidatari e gli altri adulti della scuola, dell’associazionismo. Perché crescere sia possibile e perché nel crescere sia possibile agli adolescenti e alle adolescenti, diventati giovani uomini e giovani donne: e sperimentare la propria libertà, la propria autonomia e la propria generatività.

Non è una cosa da poco:  in Comunità d’accoglienza si lavora perché i minori crescano, lascino, vadano.

Ci sono certo padri e madri tra noi: abbiamo già scoperto che noi “abbiamo” i figli per offrirli alla vita, e perché ci lascino.