“Giovane egiziano si toglie la vita”. Il giornale dà rilievo alla vicenda di quest’immigrato trovato appeso a una trave alla stazione dei treni: alcuni ospiti nostri mi fanno notare che ultimamente lo si vedeva spesso nel cortile del Patronato…Il nome dice poco: è uno dei tanti Abdul, Muhammad, Khaled, Ahmed…Mi sforzo di ricordare: dalle nebbie della memoria emerge la figura del ragazzo. Ora ricordo di averlo visto aggirarsi in cortile con l’aria di chi voleva avvicinarsi per parlare, per chiedere, ma non osava, si conteneva, come se temesse di ricevere l’ennesimo no ai suoi desideri e speranze. In disparte, si limitava a osservare tutti, coi quei penetranti occhi scuri che trasmettevano una supplica muta e perciò più clamorosa. Si erano più volte presi cura di lui, ma per l’impossibilità di conseguire un lavoro, sembrava rassegnato alla proposta di rientrare in patria. “Perché l’ha fatto?” chiedo a un connazionale. “Non darti pena –risponde- non ci puoi fare niente: rientrare in patria per noi significa ammettere il fallimento; per la nostra famiglia che ha pagato fior di quattrini per farci arrivare qui, il ritorno avrebbe il sapore del tradimento…Lui non se l’è sentita”.