Il papà non l’ha mai conosciuto e quando rimase orfano di mamma a 7 anni la nonna materna lo fece sedere sulle ginocchia e gli parlò come si fa a un uomo: “Io non posso mantenerti: ti affido a uno “zio” che si prenderà cura di te” .
Così il piccolo marocchino lasciò il suo paese chiuso nel bagagliaio di un’auto. Tre giorni dopo lui e lo zio erano in carcere in Spagna.
Iniziò così un’odissea che sarebbe durata una decina di anni: ceduto da uno “zio” all’altro, aveva imparato l’arte della sopravvivenza, finché stanco di angherie, a 13 anni si era “messo in proprio” e aveva girato l’Europa alternando la vita in strada a quella nelle prigioni (una dozzina) e diventando papà a 18 anni.
Approdato al carcere di Bergamo, fu affidato al Patronato e da allora tutto cambiò: conobbe una coetanea italiana mamma di una bimba e se la sposò. Dall’unione erano nati altri tre bimbi e il nostro a 25 anni si ritrovò con 5 minori a carico.
A rischio di sfratto, gli si è trovato un affitto sicuro e poi, grazie a uno straordinario imprenditore, un lavoro garantito. Del Marocco gli era rimasta solo la nonna che gli voleva bene e a cui voleva bene, finché giorni fa gli fecero sapere che era morta.
Mi ha detto: “Ora non ho più nessuno. Perché?”. Ho risposto: “Ora hai te stesso e la tua famiglia. E la tua nonna è morta serena perché sapeva che tu eri diventato un uomo”.
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