Marito e moglie di origine africana, entrambi sordomuti, così come il figlio maggiore hanno trovato casa e lavoro in Bergamasca. Finalmente possono scrivere: «La nostra famiglia felice a casa»
Sorride, solleva i pollici delle due mani verso l’alto per mostrare la sua contentezza e soddisfazione. Opdy (i nomi sono di fantasia) è un giovane uomo di circa trent’anni di origine eritrea. Vive in un paese della Bergamasca con la moglie e due figli di 10 e 8 anni. Lo incontro con la moglie al Patronato San Vincenzo perché da lì ha preso le mosse la sua nuova vita e perché per comunicare con lui è indispensabile la presenza dell’operatore che lo ha seguito da quando nel 2017 è arrivato a Bergamo. Per l’esattezza era il periodo natalizio di 5 anni fa ed ora, dopo un grande lavoro di rete che ha coinvolto il territorio, si può dire che il miracolo è avvenuto. Opdy è sordomuto dalla nascita, lo sono anche la moglie Wod, il figlio maggiore che ha anche un disturbo nello spettro dell’autismo, mentre la bimba ha iniziato a parlare recentemente, dopo che si è scoperto che il suo mutismo era dovuto, non a un problema organico, ma al silenzio in cui la famiglia necessariamente vive.
Il racconto della storia di questi giovani genitori si sviluppa attraverso le domande scritte in inglese su un grande quaderno. Opdy non sempre comprende, ma con l’operatore Antonio Semperboni ha messo a punto alcuni segni e gesti che aiutano la conversazione. L’uomo legge le domande, si concentra, poi si consulta con la moglie traducendo in gesti la richiesta, infine scrive la sua risposta, accompagnata da espressioni del volto molto eloquenti. Si stupisce che qualcuno voglia raccontare la sua storia, ma la sua ha un’«happy end», è una di quelle buone notizie che raramente finiscono sul giornale.
Ed è una storia che inizia molto tempo fa, quando Opdy, poco più che bambino, lascia l’Eritrea con il fratello e raggiunge il Sudan. Era il 2002. Successivamente Opdy rimane da solo perché il fratello vuole andare in Israele, da allora cala il silenzio, e Opdy a oggi non sa cosa sia accaduto al brother. Nel frattempo conosce Wod, sua futura sposa. A questo punto del racconto Opdy si consulta con lei, sembrano in disaccordo sulla data del loro primo incontro; quando Antonio batte la mano sul cuore, Opdy e Wod sorridono, quasi imbarazzati.
Nel 2010 dal Sudan la coppia decide di spostarsi in Libia, qui Opdy lavora lavando le auto e producendo mattoni per costruire edifici. Sono però anni duri in Libia, e gli immigrati sono costretti ad andare in un altro Paese per via della guerra. Messo insieme il denaro per il viaggio, circa 600 euro, Opdy e Wop decidono di salire su una imbarcazione di quelle che attraversano il Mediterraneo per arrivare in Italia. Alla domanda, posta ingenuamente, sul perché affrontino le acque con un piccolo che è nato da pochi mesi, Opdy scrive: «We are afraid, but we take risk: die or life». Morire o vivere. Non ci si mette per mare con un neonato per incoscienza, un padre e una mamma lo fanno perché non ci sono alternative.
Così la famiglia approda il 17 settembre del 2013 a Ragusa. Qui vengono identificati, poi trasferiti a Reggio Calabria in un campo dove rimangono per quattro anni, fino a quando il programma per l’accoglienza si conclude. Per la famiglia che si è allargata con una nuova nascita, la meta successiva diventa il Nord Italia, Bergamo. Al Patronato San Vincenzo Opdy arriva un giorno, dopo che qualcuno in stazione gli ha fatto capire che lì avrebbe potuto trovare aiuto. «Sapevo – dice, o meglio scrive – che era molto dura, perché al Patronato sono ospitati solo uomini, io avevo una moglie e due bimbi piccoli. Infatti hanno trovato per tutti noi un posto dove dormire anche se in un primo periodo separati». Opdy al Patronato, Wod e i bimbi accolti in una struttura delle suore. Poi arriva l’ospitalità in un appartamento in un comune bergamasco. Il Patronato si prende a cuore la situazione della famiglia, contatta il servizio sociale, con grande sforzo e impegno di molti si superano difficoltà burocratiche, ottenendo che gli adulti e il primo figlio ricevano una pensione per la disabilità; attualmente il bimbo è inserito in una struttura dal lunedì al venerdì, mentre la bambina frequenta la scuola.
Opdy, che ha dimostrato di non arrendersi di fronte agli ostacoli, segue un tirocinio per un anno e mezzo in una cooperativa ed ora, orgogliosamente, lavora nel settore «packing», otto ore al giorno per sei giorni alla settimana, in una grande azienda che consegna merci a domicilio. Con l’assunzione è arrivata anche la patente per l’auto, e ora Opdy cerca un mezzo di seconda mano.
A distanza di alcuni anni, una vita tutta in salita sembra aver preso un corso positivo, fatto di sicurezze: una casa, un lavoro, un aiuto per il figlio più fragile. Quando sono partiti dalla Libia, speravano di poter trovare in Italia una vita migliore, perché in Libia «no rest, no freedom», nè pace nè libertà.
Opdy e Wod sono contenti e non dimenticano chi li ha aiutati: portano al Patronato due pacchi regalo, uno per Antonio, che è per loro molto più di un «semplice» operatore, e uno per gli ospiti. Lo consegnano a don Davide Rota, lo abbracciano commossi. Vogliono una foto che ricordi loro questo Natale 2022 all’insegna, finalmente, della tranquillità. Staranno «happy at home», preparando il piatto tipico eritreo injera, con riso e carne.
«Questa è una delle storie di riscatto che accadono al Patronato – commenta Don Davide -.In questo caso in particolare gli operatori sono stati molto bravi, hanno seguito la famiglia per molto tempo, senza abbandonarli. C’è qualcosa di misterioso che avviene in questo luogo, che va al di là della comprensione e lascia stupito anche me, perché supera ogni attesa».
Le ultime parole che Opdy scrive sul quaderno sono in italiano: «Buon Natale».(Opdy e Wod sono i nickname che la coppia ha scelto per raccontare la loro storia: one person deaf e woman deaf, una persona sorda e donna sorda).
Articolo di Laura Arnoldi, da L’Eco di Bergamo 24/12/2022
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