Ultimamente i «Pronto soccorso» degli ospedali non godono di buona fama… Ma basterebbe avere un po’ di tempo e calma per scoprire che questo primo approccio alle cure mediche ospedaliere sa offrire esperienze positive a chi è obbligato a farvi ricorso.
In primo luogo a chi si rivolge al Pronto soccorso è chiesto di diventare ciò che è: un paziente, non solo nel senso di uno che patisce, ma anche di uno che è disposto a portar pazienza.
Io che nel Pronto soccorso stavo aspettando da 4 o 5 ore mi sono vergognato delle mie smanie, dopo che una signora di 88 anni «parcheggiata» su una barella mi disse di star aspettando il responso dei medici dal giorno prima, ma che era comunque serena per la vicinanza dei figli e la possibilità di riposare e pregare un po’ di più.
Ancora: la scoperta che quando uno si infortuna o si inferma, sono in tanti a prendersi cura di lui: come il ragazzo rimasto appiccicato per ore alla sua ragazza che copriva di abbracci e baci per consolarla del suo male. O come i figli che si turnavano affinché l’anziano genitore non rimanesse solo (dalle 8 alle 21 non ho visto in Pronto soccorso una badante che è una).
Infine che dire della professionalità del personale medico? Nessuna fretta o approssimazione, ma ogni persona trattata con rispetto e ogni cosa fatta con scrupolo, anche a costo di prolungare l’attesa, pur di dare a ognuno la cura giusta.
E siccome dei «Pronto soccorso» si parla solo per i casi (veri o presunti, ma rari) di malasanità, ne approfitto per ringraziare non solo i medici e il personale, ma anche i pazienti e i loro familiari.
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