Ero anch’io tra i moltissimi che il 23 novembre pomeriggio hanno affollato la chiesa di Albano per l’ultimo saluto a don Gianni Chiesa. Una marea di gente, proveniente dalle storie più disparate e diverse. Donne e uomini, credenti e non credenti, che provenivano dai luoghi e dalle esperienze che Gianni ha vissuto e attraversato: il sindacato, la politica, la cooperazione sociale, Casa Amica, l’Equipe Notre Dame. Durante la liturgia, con insistenza, mi sovvenivano le parole di Simone Weil: “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. …”
Bastava guardare l’assemblea funebre di oggi per rendersene conto. Lui, prete operaio, che da molti anni non aveva più parrocchia, è riuscito a intrecciare, attorno all’altare, i moltissimi fili che hanno reso bella la sua vicenda di uomo e di cristiano. Perché in Gianni – uomo dalle profonde connessioni – le due cose erano strettamente legate:profondamente laico e, insieme, profondamente cristiano. Da credente parlava le lingue degli uomini. Senza bisogno di distinzioni o di separazioni. Sin dai tempi della militanza sindacale ha scelto di mettere insieme testa e cuore, sentimento e razionalità politica. Finita la stagione dei furori ideologici, ha compreso, prima di altri, che sulla cura del volto si giocava il confine e la vocazione della politica. Lo ricorda ancora Simone Weil: “La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo”.
Certo, questo ha voluto dire che Gianni è stato un uomo, un credente, un prete schierato. Per il Vangelo e per le persone in carne ed ossa. Perché come diceva uno slogan cileno: “non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia”. Un uomo libero, fiero e indisponente nella sua libertà. Un prete che amato la Chiesa e che si è sentito Chiesa, anche quando era guardato con diffidenza. Un credente che, soprattutto negli ultimi anni, si è ricentrato sempre più sull’essenziale: la Parola (quanto la amava e gli piaceva presentarla!) e la vicenda di Gesù di Nazareth. Che ha cercato di raccontare con la sua vita. Dalla periferia. Da dove quella Parola e quella vicenda si comprendono meglio e più in profondità.
Daniele Rocchetti
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