«Fin da bambino, quando ho detto ai miei genitori che volevo andare in Seminario e volevo diventare prete, ho avuto un’intuizione, che poi ho approfondito, scoprendo che era profondamente vera: è un privilegio enorme essere chiamato da Dio, personalmente. Perché Dio chiama personalmente, vuole te, non vuole un altro, dice: “Tu mi occorri perché io possa realizzare il mio progetto di salvezza sul mondo”».

    A parlare è don Davide Rota, classe 1949, uno dei volti della carità a Bergamo come presidente del Patronato San Vincenzo, grande opera diocesana che si occupa di assistenza ai poveri e di promozione sociale a diversi livelli, anche nella sua diramazione in Bolivia. Ma don Rota è anche noto in diocesi per aver accompagnato all’altare migliaia di coppie, oltre a essere la firma che i lettori dell’Eco di Bergamo trovano ogni domenica in prima pagina, con le sue pillole di spiritualità. E una pillola gliela chiediamo anche noi sul tema della vocazione al sacerdozio.

    «Mi ha affascinato così tanto il privilegio di essere prete – continua il nostro interlocutore – che uno avesse una fiducia così grande in me e mi volesse coinvolgere in qualcosa che riguarda tutti gli uomini di tutti i tempi, che dissi subito di sì, un sì che ho poi ripetuto nel corso della mia vita. E anche adesso cerco di far capire ai seminaristi, a chi è in ricerca vocazionale che il prete è uno che ha un privilegio, è stato convocato, non si è proposto lui. Io potrei propormi al Papa dicendogli: “Santità, voglio essere un suo collaboratore in Vaticano”, ma lui mi direbbe: “Caro don Davide, torna pure a Bergamo…” Dio invece mi ha detto: “Tu mi occorri”. Questa cosa è stata così grande, così bella…. ».

    «Progetto di salvezza sul mondo »: chiediamo a don Rota se non gli sembra che oggi, anche fra i sacerdoti, si scivoli spesso in una visione di salvezza molto orizzontale. «Ho capito meglio qual è la salvezza per cui dobbiamo operare quando ero in Bolivia come fidei donum – commenta il prete bergamasco, che è stato missionario nel Paese andino tra il 1982 e il 1995 – mi sforzavo di aiutare tantissima gente, ma non riuscivo a raggiungere tutti. Quanti bambini ho visto morire per cause legate alla miseria in cui vivevano i genitori. Se riuscivo a fare qualcosa per il 10% per il 90% ero impotente. Quante persone ho visto vittime di situazioni insopportabili. Lì ho avuto la percezione molto forte del fatto che nel mondo non c’è e non ci sarà mai una giustizia completa.

    Pensiamo alla Shoah, ai Gulag, chi restituirà la giustizia per quelle tragedie La salvezza non può essere una cosa solo legata all’aldiquà, deve comprendere una dimensione ulteriore. La vita non si completa nel presente. E l’uomo non è stato creato per un breve lasso di tempo racchiuso tra due parentesi, due nulla, prima della sua nascita e dopo la sua morte. L’uomo è destinato all’eternità ed è nell’eternità che Dio vuole salvare tutti.

    Io devo lavorare in questa prospettiva, che va al di là del tempo. Quelli che io non sono riuscito a salvare, io voglio che Dio me li restituisca tutti e sono certo che Lui ascolterà il mio desiderio. Così, quando vado in giro a parlare per le parrocchie e parlo della nostra esperienza al Patronato San Vincenzo, ricordo sempre che il gesto di carità più grande che un prete può fare è celebrare la Messa, confessare, amministrare i sacramenti. E annunciare la Parola di Dio. Tutto il resto è importantissimo, ma non dobbiamo mai perdere lo sguardo soprannaturale.

     

    Da Avvenire, 03/06/2022

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