DIO DONA A CIASCUNO LA PROPRIA MORTE.
di don Davide Rota
Qualche settimana fa io e don Fausto ci siamo trovati da soli in attesa che arrivassero gli altri sacerdoti per la riunione mensile. «Che c’è Fausto? Mi sembri stanco…» gli avevo detto. Lui non si apriva molto: parlava sempre degli altri, dei suoi ragazzi, dei carcerati, dei poveri della stazione.
Aveva come una ritrosia a lasciarsi andare, come se non volesse che qualcuno gli guardasse dentro. «Sono stanco – rispose – ma contento. Io devo vivere molto intensamente le mie giornate, se voglio star bene con me stesso. Allora arrivo a sera soddisfatto, anche se non ce la faccio più. O forse proprio per questo». Era la prima volta in tanti anni che don Fausto non si difendeva. Non mi obbligava a distogliere lo sguardo da lui per vedere gli altri che la sua misericordia e solidarietà metteva sempre in primo piano. In quelle parole ho colto con stupore non solo la forza e il coraggio di don Fausto, ma anche la sua debolezza; ho visto, non solo il benefattore dei poveri, ma un povero in più.
Mi è venuta in mente questa frase nei giorni del mio isolamento da quarantena, quando mi arrivavano resoconti sempre più drammatici del suo stato di salute. Lo avevano mandato a Como e le notizie filtravano con il contagocce… Scacciavamo dal cuore il pensiero che non l’avremmo più rivisto, come sta capitando a migliaia di bergamaschi con i loro cari. Io poi mi ero convinto che non potesse morire: aveva troppi progetti per la testa e, ultimamente, come sospettando che “il tempo oramai si era fatto breve” volesse esplorare ogni eventualità e mettere a frutto ogni possibilità. Ostinatamente, fino all’ultimo, abbiamo pregato perché Dio, la Madonna e don Bepo facessero il miracolo, anzi no, che gli rendessero ciò che gli spettava
di diritto: qualche anno di vita in più in cambio dei tanti anni dedicati a loro e ai poveri. All’una e mezzo di notte di lunedì 23 marzo, don Dario chiama:
«Don Fausto è spirato poco fa» non sono più riuscito a prendere sonno e neppure a pregare.
Ho sentito solo un grande vuoto. Poi d’improvviso mi è venuto in mente un frammento di Rainer Maria Rilke: “O Dio, dona a ognuno la sua morte. Una morte nata dalla sua vita”. E poco a poco ho capito.
Cos’ha cercato Don fausto più di tutto nella sua vita di uomo e di prete? Ha cercato l’altro, che è il povero, l’ultimo, il giovane in disagio, il carcerato, il barbone. Li ha cercati perché in loro vedeva il volto di Dio, quel Dio che lui non ha mai smesso di cercare, da uomo di fede quale era. Ha continuato a farlo anche quando ai primi giorni di marzo una febbre fastidiosa ha cominciato a perseguitarlo: è dovuto crollare per convincersi a mettersi a letto e quando ha saputo che in carcere era in atto una rivolta, voleva a tutti i costi andarci per sedare gli animi. Sono stati giorni fatali che forse hanno fatto la differenza tra la vita e la morte. Ma la morte aveva già messo radici nella sua vita ed è fiorita come ultima, estrema e splendida testimonianza di fedeltà a Dio e di amore al prossimo.
Fausto è vissuto con i poveri e per i poveri e poco a poco ha imparato ad essere povero come loro. Il Signore gli ha dato la morte da Coronavirus che ai nostri occhi è la peggiore, ma che ai suoi occhi divini è il coronamento di tutta la sua vita. In meno di un anno il Signore ci ha portato via i nostri due preti di punta, i migliori: don Fausto Resmini e don Roberto Pennati. Siamo rimasti uno sparuto gruppo di sacerdoti, ma anche così sappiamo che “Dio non toglie mai una gioia ai suoi figli, se non per prepararne una più grande” (Promessi Sposi). E siamo certi che con loro due lassù in Paradiso, il Patronato continuerà ad essere in buone mani.
NEL SUO SORRISO DELICATO INCARNAVA IL DOLORE DEGLI ALTRI
di don Marco Perrucchini
Al fianco di don Fausto dal ’98, don Perrucchini lo descrive come testimone di una Chiesa capace di fare casa con i poveri L’incontro con don Fausto Resmini è stato determinante nella vita di don Marco Perrucchini, prete del Patronato dal 2008. Ordinato sacerdote nel 1994 e destinato come curato all’oratorio di Borgo Santa Caterina, don Marco ricorda un momento decisivo. «Nel 1998 – racconta – dopo una festa in oratorio ero andato in stazione per portare del cibo a don Fausto per le persone che si accostavano al suo camper. Mi chiese se potevo dargli una mano quella sera. Da allora tutte le domeniche alla stessa ora sono andato con lui in stazione. A fianco di don Fausto ho imparato a guardare la strada con occhi nuovi. Mi ha insegnato che lì si va a casa dei poveri, non per cambiare la loro storia, ma soprattutto per essere accanto, per essere con loro».
Don Marco ha visto don Fausto «abitare » quel pezzo di città come presenza fedele e instancabile. «Non li avrebbe mai lasciati – afferma -. Vivere e morire con qualcuno o da soli non è la stessa cosa e lo stiamo sperimentando in questi giorni. Si è fatto testimone di una Chiesa capace di “fare casa con i poveri”, qualsiasi sia la loro storia». Ricordando il volto di don Fausto, don Marco ne ricorda quel leggero tratto malinconico permanente. «La sua empatia con il dolore degli altri era profondissima. Sulla strada, in comunità, in carcere aveva la delicata capacità di fare proprio il dolore dell’altro. In quel suo sorriso raro e delicato si manifestava la forza dell’incarnazione del dolore degli altri».Don Perrucchini ritrova in don Fausto anche un grande coraggio. «Quando nel 1988 fu emanato il decreto con le disposizioni penali per i minori, lui fu tra i primi a camminare su questo territorio nuovo e sconosciuto. Quando Sorisole si è aperto anche a questi ragazzi, si è dato l’avvio a percorsi educativi che richiedevano coraggio e responsabilità. Bisognava riconsegnare ai minori pezzi di responsabilità, senza porsi in una posizione giudicante, ma lavorando per la promozione, il rilancio, il riscatto di ciascuno.
Posso dire che questa partita don Fausto l’ha giocata in modo vero e appassionato».
Don Marco è stato vicedirettore al Patronato di Sorisole dal 2009 al 2013.
«Ho visto la sua passione per i giovani, i ragazzi, gli adolescenti dentro una cura che si declinava nelle disposizioni di giustizia minorile e nei percorsi alternativi al carcere. È’ stato interprete di una grammatica relazionale ed educativa che richiama il mondo adulto a un compito esigente ma soprattutto accogliente»24
“E’ STATO UN PAPA’ PER ME E INCONTRARLO UNA GRAZIA”
di don Dario Acquaroli
Un onore, per altri un privilegio. «Per me incontrare don Fausto è stata una grazia, un dono enorme. Quello di essere accompagnato da lui, dalla sua semplicità, sapendo bene che si poteva sorvolare su alcune cose, andando più sul concreto».
Il ricordo che don Dario Acquaroli tratteggia di don Fausto Resmini va al cuore del suo essere, un racconto che nasce dalla condivisione quotidiana sotto la Maresana, dove il sacerdote trentunenne era stato scelto da don Fausto, due anni fa, come responsabile della comunità per minori.
«Nel ministero è stato un papà per me, mi ha aiutato a crescere in questi primi anni da prete – continua -. Mi ha aiutato a puntare sulla preghiera, sulla fede. Una volta qualcuno l’ha definito più prete di strada che d’altare e s’era arrabbiato davvero tanto:
“Io non posso far niente se non parto dall’altare – disse don Fausto – perché lì incontro Dio e trovo la forza di fare le cose che faccio fuori”. Ricordo un episodio – prosegue don Acquaroli – di un seminarista venuto qui un’estate. Era sconsolato per delle difficoltà con un ragazzo. Lui gli chiese: “Quante ore hai passato davanti al tabernacolo oggi?”.
Alla sua risposta negativa, la conclusione: “Benissimo, comincia da quello”». Il secondo insegnamento che don Dario porterà sempre nel cuore e nel suo agire «è questo: don Fausto ha incarnato l’idea di fondo di don Bepo nel suo carisma educativo: ogni persona è il tesoro più grande che Dio possiede, non è ciò che ha commesso, ciòche dicono di lui gli altri, ciò che fa. È il tesoro più grande che Dio possiede, punto».
Si dice fortunato don Dario di «averlo conosciuto qui, in questa realtà che è della Chiesa di Bergamo». Realtà di frontiera, dove dici Messa ma a Messa non c’è nessuno. Dove accogli vite difficili e ogni giorno apri crediti di fiducia che non ti aspetti siano pagati. Ieri mattina queste vite, i «ragazzi» di don Fausto, erano ammutoliti, in un clima di incredulità, silenzio e dolore. Per don Acquaroli don Fausto è stato un amico, un padre. «L’ho conosciuto quasi 10 anni fa con l’esperienza caritativa del seminario». Le sere in stazione, poi il servizio con lui in carcere, ad accompagnare i canti della Messa. «Da lì è iniziata l’amicizia con lui che mi ha cambiato nelle mie idee e nel modo di vedere la fede, l’uomo stesso. Nell’incontro fatto con lui – prosegue -, dove non ci sono stati suoi grandi discorsi, ma il vivere questa amicizia con lui, nella normalità, si è fatto largo in me il desiderio di entrare nel Patronato ». Arrivato a Sorisole, «don Fausto mi ha affidato questo compito che mi ha disarmato fin dall’inizio, per la fiducia estrema dimostrata nei miei confronti». E ora che quell’amico, quel padre è tornato dal suo, alla comunità Don Milani resta la certezza che «tutto quello che c’è stato, noi faremo di tutto per potarlo avanti. Il sogno di dare una casa a chi ha bisogno non lo spegneremo».
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Ho avuto la grazia di conoscere questi “Grandi Uomini” con un’umanita e umiltà strordinaria, ringrazio Dio per averli messi sul mio cammino e prego Dio di accoglierli con le braccia spalancate…