Mercoledì 3 maggio 2023

     

    IV Settimana di Pasqua

     

    Aforisma di Georg Christoph Lichtenberg 1742-1799

    “Mi dispiace – esclamò un italiano – che non sia peccato bere l’acqua: come sarebbe gustosa!”

     

    Preghiera del giorno

    O Dio, che ogni anno ci rallegri con la festa degli apostoli Filippo e Giacomo, per le loro preghiere concedi a noi di partecipare al mistero della morte e risurrezione del tuo Figlio unigenito, per giungere alla visione eterna del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen

     

    Santo del giorno

    SS. FILIPPO E GIACOMO APOSTOLI. L’apostolo Filippo e Giacomo il minore vengono ricordati lo stesso giorno poiché le loro reliquie furono deposte insieme nella chiesa dei Dodici Apostoli a Roma. Filippo (primo secolo) era originario della città di Betsaida, la stessa degli apostoli Pietro e Andrea.

    Discepolo di Giovanni Battista, fu tra i primi a seguire Gesù e secondo la tradizione, evangelizzò gli Sciti e i Parti. Giacomo (primo secolo) era figlio di Alfeo e cugino di Gesù. Ebbe un ruolo importante nel concilio di Gerusalemme (50 circa) divenendo capo della Chiesa della città alla morte di Giacomo il Maggiore.

    Scrisse la prima delle Lettere Cattoliche del Nuovo Testamento. Secondo Giuseppe Flavio (37 circa – 103) fu lapidato tra il 62 e il 66.

     

    Parola di Dio del giorno Giovanni 14,6-14

    Disse Gesù a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».

    Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.

    In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò».

     

    Riflessione da: “Berlicche: il cielo visto dal basso”

    “Ne l’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti”. (Dante Alighieri, Paradiso Canto I, vv. 109-114).

    Nella fisica aristotelica l’attrazione è data dal grado di affinità. Il sasso cade perché è affine alla terra, il fumo sale perché affine all’aria. Ad-finis, affine = ciò che confina con qualcosa d’altro, ne condivide un limite. Da questo io sono ad-tratto = tratto a, mosso verso di lui o verso di lei. Senza affinità, senza qualcosa che si con-divide non esiste attrazione e quindi amore.

    Ebbene, l’opposto dell’attrazione è l’indifferenza: in-dis-ferentem = che non porta separazione, non fa differenze che non distingue il vero dal falso, il bene dal male, una cosa dall’altra. Se non esiste separazione allora non esiste nemmeno attrazione perché ogni luogo è uguale, ogni persona è noiosamente simile. Cessa ogni moto, ogni impulso, ogni amore.

    E questa indifferenziazione segnerebbe la morte dell’universo, lo strisciare verso la massima entropia, lo spostamento verso il grigio. Occorre pertanto riflettere a quale sia il risultato di cancellare ogni differenza, ogni distinzione, ogni confine. La grande omologazione, il pensiero unico, la fine di ogni movimento e la negazione di ogni fine. Più niente attrae, perché più niente mi è affine.

     

    Intenzione di preghiera

    Preghiamo perché l’uomo d’oggi che per favorire la sua libertà è tentato di eliminare ogni differenza, ricominci a prendere in considerazione il dovere di distinguere il bene dal male, il falso dal vero ecc. 

     

    Don’t Forget! Personaggi famosi e veri credenti

    Giovanni Testori 1923-1993

    LA “SPERDUTEZZA” DI UN «CRISTIANO MALMESSO»

    A definire questo personaggio che ha segnato la cultura del ‘900 italiano, scegliamo fra le tante una parola che lui stesso aveva scelto per parlare di Sé: sperdutezza, ossia l’abbandonarsi a una «forza altra» che compie e realizza ciò che l’uomo desidera, ciò che l’uomo, nella gioia e nel dolore, fa; questa forza “altra” è la forza di Dio, del mistero di Dio. Giovanni Testori, nato a Novate Milanese il 12-5-1923 già a 17 anni collaborava ad alcune riviste con articoli di critica d’arte.

    Dal 1952 diviene allievo prediletto di Roberto Longhi e pubblica celebri scritti sull’arte del Cinque-Sei-Settecento lombardo-piemontese. Del 1954 è la sua prima opera di narrativa: Il dio di Roserio. Seguirà poi il ciclo de “I Segreti di Milano” e il primo esordio come drammaturgo al Piccolo Teatro di Milano, con La Maria Brasca nel 1960. Gli anni Sessanta sono segnati dal sodalizio con Luchino Visconti e Testori raggiunge la notorietà presso il grande pubblico. Con Franco Parenti, a partire dal 1972, porta in scena la “Trilogia degli Scarrozzanti”, dando vita, con Andrèe Ruth Shammah al Salone Pier Lombardo.

    Nel 1977, la morte di sua madre dà inizio a una nuova fase della sua vita, segnata dal monologo Conversazione con la morte e dalla collaborazione con il Teatro dell’Arca di Forlì. Gli anni Ottanta sono invece nel segno di Franco Branciaroli e del Teatro degli Incamminati, da lui fondato con Emanuele Banterle. Erano gli anni in cui si andava intensificando la sua attività di critico militante, rivolta a molti giovani talenti che devono a lui la notorietà.

    Dalla metà degli anni Settanta, Testori aveva preso il posto di Pasolini come commentatore in prima pagina del “Corriere” e dal 1978 diviene responsabile della pagina artistica. Dopo tre anni di malattia, Testori muore il 16-3-1993, quando oltre 800 articoli si erano andati ad affiancare ai suoi celebri drammi, romanzi e studi critici.

    Conversazione con la morte: come abbiamo già detto, è il monologo scritto per la madre morta nel 1977, che Giovanni Testori il più grande drammaturgo del secondo ‘900 lesse la sera del 7-11-1978, al teatro Pierlombardo di Milano a cui seguirono le repliche, spesso in chiese delle principali città italiane. Tanta “intellighentsia” rimase sconcertata: lo scrittore omosessuale, maledetto e blasfemo, spesso accostato per questo dalla critica a Pasolini, cantava la sofferta letizia della fede cattolica. «Io sono sempre stato un cristiano malmesso»: diceva di sé.

    Di lui ha scritto Luca Doninelli: “Testori ci ha insegnato cosa sia l’assassinio della parola, il suo ingabbiamento in modo che non dica più nulla e non possa dire mai più nulla. Lui più di chiunque altro ci ricorda quale sia il compito della parola, la sua vocazione: dar voce e coscienza alla muta, e sempre più luridamente taciuta, domanda che la nostra carne e le nostre viscere racchiudono: che la vita sia giudicata: che il Signore venga, che il Verbo si faccia carne”.

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