Che le parole più attese nella vita di una persona siano le prime è indubbio, ma che le più importanti siano le ultime, è fuori discussione.
A questo proposito un anziano sacerdote mi raccontò che gli era capitato di essere stato chiamato lo stesso giorno al capezzale di due malati terminali che capivano sì, ma non parlavano più.
Al primo, dopo avergli amministrato l’unzione degli infermi, chiese con insistenza di dire qualcosa e l’uomo sussurrò: «Padre nostro che sei nei cieli…» per spirare quasi subito.
Recatosi a casa dell’altro, i familiari gli dissero che si era chiuso in un mutismo ostinato e che si limitasse a dargli una benedizione visto che mal sopportava «il fumo delle candele».
Ma, forte della precedente esperienza, il giovane prete insistette col malato affinché dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. L’altro facendo uno sforzo, esplose in una bestemmia, poi si chiuse di nuovo nel suo mutismo e morì giorni dopo: quell’imprecazione era stata il suo ultimo messaggio.
Allora mi ricordai di quel che era capitato a me: chiamato a dare l’olio santo a un tipo dal carattere scontroso e dai modi scorbutici, me ne guardai bene dal chiedergli di parlare e mi limitai a fare quanto mi era stato chiesto.
Alla fine con grande stupore mio e dei presenti l’anziano mi prese le mani, le baciò e disse «Grazie». Fu la sua ultima parola. E compresi che le parole finali non chiudono la vita, ma la rivelano.
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