Come la pandemia ci ha cambiato
Quando è scoppiato il Covid, devo ammettere che l’avevo sottovalutato, non mi pareva una cosa così grave. Dopo ho dovuto ricredermi, in realtà era molto grave, ma posso dire che non ho mai dubitato che il Covid fosse un problema per la Bergamasca, e neanche per l’Italia. Mai.
Tre aspetti da recuperare: stare alla realtà, essere credibi i e l’apertura verso il futuro
Le uniche cose devastanti non sono quelle che nascono dalla natura, ma dall’uomo: quelle diventano veramente distruttive. La natura non è in grado di distruggere: fa del male, colpisce, ferisce, ma non cambia il corso della storia, se non in casi eccezionali; ma è sempre l’uomo che può davvero determinare un cambiamento.
Perciò: proviamo a dire cosa abbia cambiato la pandemia che abbiamo vissuto. La pandemia secondo me non ha cambiato nulla. Ha semplicemente fatto venire a galla quello che era già presente, magari nascosto. Cosa ha fatto venire a galla?
Il Covid ha fatto venire a galla ciò che era già presente tra la gente, magari in modo nascosto
Primo: la qualità del popolo bergamasco. È stato colpito durissimamente, ma ha saputo reagire in un modo che ha stupito tutto il mondo. Vedere quei camion che portavano via le bare non è stata una cosa da niente. Altri ci avrebbero ricamato su per molto tempo, mentre noi siamo stati piuttosto cuciti su queste cose. Mi è piaciuto moltissimo che non siamo andati nei giorni del lockdown sui balconi a battere le pentole o a cantare. Mi è piaciuto molto che da noi quella fase infame («andrà tutto bene») sia stata detta poco. Sì, si può far dire ai bambini, ma un adulto non può dirla. La crisi è crisi, la sofferenza è sofferenza e va vissuta con serietà.
La seconda cosa è capitata a me: uno dei nostri del Patronato S. Vincenzo, più bravo di tutti, don Fausto Resmini, purtroppo è morto. Io mi sono ammalato di Covid e sono sopravvissuto, ma ho visto morire i miei compagni in stanza, per cui mi dicevo: ora toccherà anche a me.
Ridimensionate molte pretese. È andato in crisi un modello di crescita, e ora va ripensato
Il Covid invece per me è stato provvidenziale, l’ho ringraziato. Mi chiedevo: ma perché non sono preparato a morire? L’età ce l’ho, perché non ho tenuto in conto il fatto che io debba terminare? Adesso devo cambiare.
Io ora, dopo il Covid, sono cambiato, sono diventato una persona più seria, più decisa, più determinata, più felice, perché so che devo morire, perché so che ho ricuperato la mia condizione di uomo, non vivo più nelle fantasie. E ringrazio il Covid per questo, anche se è stata dura come lezione, ma sono le lezioni dure quelle che servono.
Mi hanno amareggiato i No-vax, che sono secondo me una deriva della maniera un po’ irreale di vivere dell’uomo d’oggi. L’uomo d’oggi vive in gran parte in un mondo non reale, e quelli non hanno capito dove erano. Io ho fatto tutti i vaccini possibili, anche perché vivendo in mezzo alla gente non potevo diventare portatore di pericolo per loro, responsabilmente dovevo farlo e basta.
Terzo. La cosa più interessante è stata la reazione di tutti: dagli alpini alle istituzioni pubbliche, alla sanità. Io non metto sotto accusa la sanità. Trovo che sia stato crudele e ingiusto accusarla. Puoi dare la colpa a un medico di non sapere di una cosa nuova arrivata all’improvviso? Queste accuse post factum sono tutte gratuite e sono piuttosto cattive, non me le aspettavo. Non si può incolpare una sanità, che ha dato un grosso contributo, ha anche pagato in modo serio la pandemia; medici e infermieri hanno pagato, ci hanno assistito, non ci hanno mollato un momento, e io di questo sono grato. Accusarli non è nobile.
Serve un nuovo
modello di crescita
Quarto: una presa di visione della realtà ci voleva. Un ridimensionamento delle pretese ci voleva. Noto che attualmente la scienza ha preso il posto che avevano prima i preti: spesso la scienza fa come i preti di una volta, dogmatici al massimo. Bene, anche loro si sono presi una bella ridimensionata. Perché non l’hanno previsto il Covid? Mica sono onnipotenti! Solo Uno, se ci si crede, è onnipotente.
Quinto. Non sono uno studioso, però seguo molto la gente, parlo molto con le persone, sono dentro nei problemi. In pochi anni abbiamo assistito a livello planetario a un effetto domino: pandemia, guerre, la ribellione della natura e le bollette che sono esplose. Sembrerebbero tutte cose differenti, ma credo che ci sia tra loro una relazione che ci dice che quando le crisi si succedono a tempi così ravvicinati, significa che un modello è in crisi e va rivisto.
Quando sono rientrato un po’ di anni fa dalla Bolivia, la cosa che mi ha stupito ritornando in Italia è che noi viviamo in un mondo non reale. E la stessa impressione è confermata adesso quando considero la vita degli africani che ospitiamo al Patronato. La realtà non è quella che noi italiani viviamo ogni giorno. E occorre, se vogliamo bene alle persone, riportarle nella realtà. Abbiamo creato un livello di vita a cui forse non abbiamo diritto. Ci hanno detto tutti che abbiamo diritto a quel livello, ce lo dicono i politici, ma poi la storia ci rimette al nostro posto.
la Chiesa si interroga
su questi cambiamenti
Un ultimo appunto sulle conseguenze della pandemia. Secondo me -io non parlo a nome della Chiesa di Bergamo, parlo a nome puramente personale- la Chiesa di Bergamo ne è uscita con le ossa rotte. Perché?
Non perché abbia sbagliato qualcosa. Paradossalmente ciò che ha messo in crisi la Chiesa di Bergamo non è stata la pandemia, ma le misure messe in atto per combattere la pandemia. Dico questo perchè ci sono due cose di cui la Chiesa non può fare a meno: il contatto con la gente e il culto, ed entrambe, durante i lockdown, le sono state tolte.
La prima cosa è il contatto con la gente, perchè le religioni vivono di contatto personale. Quando i musulmani pregano insieme, devono toccarsi con il gomito l’uno con l’altro. Pregando, devono toccare terra, così sulla fronte hanno un bollo, perché a forza di toccare per terra si crea un callo. Contatto con la terra, con la realtà. Contatto con gli altri.
Se nel periodo migliore dell’anno per la Chiesa, che è la Quaresima e la Pasqua, le togli tutto, e tutto deve essere da remoto, rischia di non esserci più la Chiesa. Succede che la gente continua sì a credere in Dio, ma in un modo virtuale, cioè non reale. E lo conferma il fatto che il post-pandemia ha visto quasi ovunque un dimezzamento delle presenze in chiesa. Se si perde il contatto con la gente è a rischio la sopravvivenza della comunità.
E in secondo luogo, il contatto con Dio passa attraverso il culto, non passa solo attraverso la carità. Non basta la cura della persona, non basta raccogliere i soldi per i poveri, è troppo poco. La Chiesa vive del contatto con la gente, vive del contatto con la storia e con la natura, vive del contatto con Dio. Se si perde questo contatto è finita.
Proviamo a definire
la “vita buona”
Uno degli obiettivi di Missione Bergamo è capire che cosa è oggi per i bergamaschi la “vita buona”. Vita buona: cos’è?
Mi permetto di dire quello che ho capito in tutti questi anni, ma credo che valga anche per chi progetta la città futura. E “vita buona”, per me, sono tre cose.
Primo, il contatto profondo con la realtà. C’è troppa fantasia nei nostri progetti, c’è troppa ideologia. Il contatto profondo con la realtà, con la gente. I preti che sono in contatto con la gente, riescono a tenere.
Gli esperti servono perché ci illuminano, ma è la gente che ci salva, il contatto con le persone. Io ho imparato a valorizzare moltissimo le persone in Bolivia, vedere questi boliviani, che noi giudicavamo un po’ così, che riuscivano a tirare avanti nonostante tante condizioni spaventose. E vale per gli africani adesso. Che valore aggiunto! La Chiesa deve abbeverarsi continuamente alla gente normale. Mentre noi tendiamo a insegnare alla gente come si fa. Invece bisogna imparare quotidianamente da loro e non perdere mai di vista il contatto con loro, mai. E con la storia e la realtà: occorre star dentro nella realtà.
Secondo: la serietà. In una società pluralista e liberale come la nostra, è riconosciuto a ognuno il diritto di fare quello che vuole. Dire a uno: «questo è sbagliato, questo è giusto», non serve. La Chiesa può anche dirti «non si fa così», però se lo Stato legittimamente riconosce una cosa, l’importante è che tu sappia chi sei e che tu faccia fino in fondo ciò di cui sei convinto.
Io credo che ai preti (parlo della Chiesa, ma vale anche per altri ambiti) si chieda che vivano secondo quello che dicono di fare. Non si limitino a proporlo agli altri, ma lo vivano in prima persona. Devi essere ciò che dici. La vita buona è quello. Io dico ai musulmani: siete musulmani? Siatelo! Seri, però.
Terzo: il futuro. Nei dibattiti televisivi spesso si sentiva: prima della pandemia il Pil era così, le retribuzioni erano cosà, prima, prima, … Il modello è il passato e tutti tendono a ritornare a quel modello come se ciò che è avvenuto – ripeto: pandemia, guerre, disastri naturali, bollette. etc – fosse stato niente. No, no. Il modello è il futuro.
Si deve progettare qualcosa che permetta, dopo questa esperienza, di affrontare il futuro in modo migliore. Bisogna puntare di più sul futuro. Cioè sui giovani, bambini, ragazzi, ma… il futuro non c’è. L’Italia è in declino demografico e per questo io sostengo che Dio è stato buono, mandandoci gli africani, che sono tutti giovani, perché il nostro futuro sono anche loro.
Posso dire, ad esempio, che dopo la pandemia il problema dell’immigrato è scomparso. Gli imprenditori hanno fatto la fila da noi a chiederci il personale, perché a differenza degli italiani i neri accettano qualsiasi condizione. Risultato? Tutti sono stati bene, tutti hanno il permesso di soggiorno, tutti hanno il contratto di lavoro e tutti stanno costruendo il loro futuro.
Non tutto è male, ciò che viene per l’uomo. Basta cogliere le opportunità.
La vita è molto più forte della programmazione che si vorrebbe fare sulla vita.Basta solo avere occhi per vedere e un po’ di intuito, e lasciarci guidare anche dalle persone che di solito noi non prendiamo mai in considerazione.
Articolo pubblicato da L’Eco di Bergamo giovedì 23/11/2023
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