lunedì 23 marzo ’20

     

    GUARDACI

    Siamo noi, guardaci, rifugiati nelle case a guardarci da lontano salutarci dai video senza carne né profumo di figlio, o padre, né mano di madre che stringe carezzando.

    Siamo noi, guardaci, in questa immobile battaglia senza terra o corpo da combattere davanti a un nemico fatto d’aria che si mangia il tuo respiro troppo piccolo per sparargli infame divoratore di nonni mai più tornati dall’ospedale senza dargli nemmeno un addio.

    Siamo noi, guardaci, medici che fino a ieri non potevamo sapere, no, di quanta furia è capace un virus quando esplode di quanti se ne porta via che non bastano a contarli queste mani chiuse a preghiera, ma nessuno è scappato, nessuno, chi poteva immaginare di quanta forza, quale coraggio, si porta nel petto lei, l’infermiera che non smette l’accoglienza che da giorni non si ferma e lavora pure mentre piange.

    Sono io, guardami, sono italiano, un popolo di terre e colori, fatto di paesi lanciati nell’azzurro e d’artisti del sorriso del buon vino da brindare d’arte profusa per le strade di primavera l’aria già impazzita.

    Mio stivale, altare di bellezza e d’amore tornerai a correre per le strade, nell’abbraccio d’uno sconosciuto con la tua voce di canto mi dirai che tutto è finito.

    – Daniele Mencarelli –

     

    iniziamo la giornata pregando

    Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato e conservato in vita. Aiutami ad agire secondo la tua volontà e per la tua gloria. Preservami dal peccato e da ogni male. Concedimi la grazia di credere sempre alla tua parola. Amen.

     

    + Dal Vangelo secondo Giovanni 4,43-54

    Va’, tuo figlio vive.

    In quel tempo, Gesù partì dalla Samarìa per la Galilea. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa. Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.

    Parola del Signore.

     

    Riflessione

    (…) Pensando alle migliaia di preghiere che si stanno elevando a Dio in questi giorni di prova inaspettata, mi sono domandato, come tantissimi, quale può essere un’immagine di Dio. E l’immagine che mi sta accompagnando, è la seguente: Dio, in questi giorni, è diventato come l’acqua. Egli accoglie tutto ciò che ‘ci mettiamo dentro’, senza sapere se è un diamante o un semplice sassolino. Nessuna preghiera deve essere ‘preparata’, un solo piccolo sospiro fa increspare l’acqua calma che è Dio.

    – Anonimo –

     

    due domande al Cardinale Jean-Claude Hollerich, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo in quarantena

    Che cosa impara anche un cardinale dai giorni in quarantena?

    In queste settimane per tutti così difficili, la morte è tornata nel nostro orizzonte. Ci ritroviamo chiusi nelle nostre case, nelle nostre stanze, da cui non possiamo uscire, e persone a noi care muoiono. La morte è tornata nella nostra quotidianità, e con essa le domande sul senso della vita. A lungo abbiamo considerato che “dio” fosse il consumare, l’affannarsi per cercare e ottenere ciò che dona piacere. In molti Paesi, come il mio Lussemburgo, si è data per scontata l’eternità di una certa idea di “benessere”. E così che abbiamo occultato la certezza della “fine”.

    La morte porta con sé l’idea della paura. Un sentimento che può disorientare e paralizzare. Qual è la risposta cristiana?

    Per noi cristiani il senso della vita è Cristo e non dobbiamo avere paura. E davanti alla paura abbiamo il dovere anche dei piccoli gesti. Penso a tanti anziani soli, a quanti si trovano nelle case di cura e non possono uscire, non possono ricevere visite. Io stesso non posso andare a trovare mia madre. Anche in questo ci è da esempio papa Francesco che ci incoraggia a compiere piccoli gesti ma di vitale importanza per tanti. Mai come in questo tempo una telefonata a chi è solo o lontano è di grande conforto e vicinanza. Anche così si aiuta a vincere la paura, cercando le persone e mostrando che gli vogliamo bene.

    l’intervista integrale su Avvenire del 22/03/20

     

    il santo del giorno – San Turibio de Mogrovejo

    Benedetto XIV lo paragonò a san Carlo Borromeo e lo definì «instancabile messaggero d’amore». Eppure Turibio, nacque in Spagna nel 1538, e nel 1579 era ancora un laico. Filippo II, tuttavia, sapeva che nel nuovo mondo gli Indios erano spesso sfruttati fino a morte e volle un cambiamento. Inizialmente Turibio resistette ma poi accettò e venne nominato arcivescovo di Lima.
    Coscienziosamente, prima di partire, studiò accuratamente i problemi da affrontare. La realtà che gli si presentò nel 1581 era drammatica: la popolazione autoctona era ridotta in condizioni di impoverimento materiale, culturale e umano, mentre i discendenti dei primi conquistatori erano gelosi dei loro privilegi.

    Turibio, tuttavia, aveva il temperamento del grande riformatore. Anzitutto nutriva grande amore e rispetto per gli indios. Per questo studiò la loro lingua, il quéchua, e impose ai sacerdoti in cura d’anime di studiarla. Convocò, poi, un concilio generale per l’America Latina a Lima, due concili provinciali e dodici sinodi diocesani. Queste riunioni gli servivano per riformare l’amministrazione e i costumi, favorire e coordinare lo scambio di esperienze missionarie e pastorali. L’arcivescovo poi fu quasi sempre in visita nella sua vastissima diocesi.

    Fondò il seminario di Lima, fece pubblicare un catechismo in lingua quéchua e raccomandò ai parroci di preoccuparsi perché le case degli indios avessero tavole per mangiare e letti per dormire. Turibio scrisse anche un “Libro de las visitas” che rivelava una mente pianificatrice di ampie vedute. Perfino le note più brevi testimoniano l’ardente amore del padre per i figli. Sfinito dai viaggi e dagli altri impegni del governo pastorale Turibio morì nel 1606.


     

    Condividi questa!

    Informazioni sull'autore

    Potrebbe piacerti anche

    Nessun commento

    È possibile postare il commento di prima risposta.

    Lascia un commento

    Please enter your name. Please enter an valid email address. Please enter a message.

    WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com